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Generazioni a confronto: loyalty o trust?

17 gennaio 2024
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Oggi parliamo di sfide e di consumatori a confronto. Dalla Gen Z, alla Y, alla X, qual è la loro attitudine verso la loyalty e come si devono comportare i brand per generare trust nei loro confronti?

Una recente ricerca dell'Osservatorio Fedeltà, presentata in occasione del Convegno 2023 e condotta su dati IPSOS (panel IPSOS FastFacts), ha analizzato cosa significa essere fedeli per le diverse generazioni.
Per gli Zoomers significa essere disposti a pagare di più per un certo prodotto e servizio a patto di vivere un coinvolgimento emotivo con quel determinato brand. Per i Millennials invece è rappresentato da un rapporto esclusivo, “scelgo sempre quel brand, anche se potrei accedere a delle alternative”. Infine, per i Boomers essere fedele significa essere clienti di lunga data. 
Questo spaccato ci rivela già un’attitudine differente dei giovani consumatori verso la marca: l’importanza della propria individualità e di sentirsi al centro delle attenzioni del brand diventano più importanti di qualsiasi tipologia di sconto.
Questo elemento è confermato anche dalle preferenze dei vantaggi rispetto ai programmi fedeltà: se per le Gen X e Y troviamo al primo posto sconti, offerte e campioni gratuiti, per la Gen Z il vantaggio più apprezzato è il regalo di compleanno seguito dai vantaggi raggiunti a soglia. 
Diventa così predominante il concetto di attenzione: un’attenzione dedicata solo a me in un giorno ritenuto particolarmente importante o un riconoscimento positivo del mio effort all’interno di un programma.

Con la Gen Z non si torna indietro: la loyalty deve essere comportamentale


L’attitudine della Gen Z segna il cambio di passo della loyalty.
Bisogna abbandonare il modello transazionale e ragionare su un approccio comportamentale e people centrico. Essere messi al centro delle attenzioni del brand, essere percepiti come individui con gusti e preferenze unici. Vedere riconosciuti i propri sforzi all’interno del percorso proposto e personalizzato rispetto alle proprie attitudini. Tutti questi elementi ci aiutano a comprendere che non si può più proporre un modello di loyalty uguale per tutti, a punti e basato sulla capacità di acquisto. Si inverte la piramide, non si parla solo agli alto-consumanti, ma si allarga la base utenti coinvolta. In questo percorso, però, i brand devono essere cauti perché, se da un lato è necessario essere tecnologicamente preparati e disporre di piattaforme evolute, dall’altro l’attenzione del pubblico verso comportamenti coerenti e trasparenti è salita ai massimi livelli. 

La coerenza che abbraccia tutti i touchpoint

Sfatiamo un mito. La Gen Z non predilige necessariamente i touchpoint digitali: a livello cross generazionale il touchpoint di riferimento più utilizzato per relazionarsi con il brand rimane il negozio fisico. La dicotomia arriva dopo, quando i più giovani confermano l’importanza di canali social e sito web, mentre per Gen X e Z ricopre un ruolo privilegiato il programma di loyalty, poi seguito dal website aziendale.
Un approccio phygital, quindi, che prevede una forte coerenza fra i canali. Da anni si parla di esperienze seamless, senza cuciture tra i diversi ambienti del brand. Le esperienze però devono anche essere “gentili”: l’attenzione e la sensazione di essere messi al centro passa tanto da una homepage che si aggiorna rispetto ai contenuti fruiti, quanto dal comportamento di un commesso, quanto dalle risposte del customer care. Per questo diventa necessario, anche in ottica di customer retention, lavorare molto sull’ultimo miglio e sulla formazione del personale, coinvolgendoli maggiormente nelle strategie di fidelizzazione ideate.

L’importanza delle buone cause 

A livello cross-generazionale non ci sono distinzioni: le buone cause sono importanti per tutti e mediamente il 60% di ogni generazione è attento alle cause ambientali.
In particolare poi, Zoomer e Millennial si fanno portavoce delle cause legate alla diversity e inclusion, mentre Zoomer e Gen X sono sensibili e attenti alla tutela delle fasce più deboli della popolazione.

In generale, la capacità di un brand di prendersi cura del territorio in cui opera e delle persone che in quel territorio vivono, resta centrale. Per questo motivo si parla sempre più spesso della loyalty come driver dei 17 obiettivi di sostenibilità (SDGs) e più in generale di loyalty sostenibile.
Loyalty sostenibile non significa solo inserire nel catalogo dei premi charity, ma prevede un coinvolgimento attivo delle persone verso determinate cause. Per preservare le risorse idriche, ad esempio, è importante sensibilizzare le persone verso un consumo consapevole dell’acqua, mettendole anche di fronte ai propri consumi, suggerendo loro azioni concrete per ridurre l’impatto ambientale. Questa sensibilità può essere raggiunta anche proponendo delle missioni comportamentali, sempre volte ad un utilizzo più consapevole delle risorse. Infine, con uno sforzo maggiore, il brand può farsi portavoce di progetti di tutela delle acque. Un esempio concreto è sicuramente il progetto M.A.R.E di Sorgenia Greeners, ormai alla sua seconda edizione, che ha coinvolto dipendenti e clienti in diversi viaggi a bordo di un catamarano per analizzare la salute delle acque dei mari italiani. 
Tutti questi processi possono e devono essere federati all’interno della strategia di loyalty coinvolgendo attivamente le persone e dialogando con loro anche in modo personalizzato per poter stimolare azioni concrete: una persona potrebbe essere maggiormente interessata a partecipare a progetti sociali ed è quindi corretto poter intercettare gli interessi e orientare le persone verso determinate azioni per massimizzare sforzi e investimenti di un’azienda.

La personalizzazione alla prova della data privacy

Sfatiamo un altro mito: la Gen Z è più propensa delle altre a condividere i propri dati personali con i brand in cambio di contenuti di valore. Secondo una ricerca di Statista, se 1 Baby Boomer su 2 è preoccupato per l’utilizzo dei propri dati personali, nel caso di Zoomer e Millennial questo valore scende sotto il 30%. A guidare questa ribalta la consapevolezza che la condivisione di dati e informazioni è funzionale ad evitare comunicazioni massive e non personalizzate. I giovani, quindi, preferiscono che un brand mappi e utilizzi in modo corretto i propri dati purché sia funzionale a ricevere informazioni pertinenti rispetto ai propri gusti e passioni. Questo è tanto più vero se pensiamo a come sono cambiati negli anni i form di registrazione, che ormai sempre più spesso propongono una semplice social login per l’accesso ad un nuovo servizio.

La nuova direzione della loyalty

La ricerca dell'Osservatorio Fedeltà delinea un quadro chiaro e rende concreto ciò che ripetiamo da anni: la loyalty ha cambiato forma ed è diventata un’attitudine verso le persone. L’arrivo della Gen Z ha semplicemente sancito questo cambio di passo che ora deve attuarsi. Non è più il momento di parlare della loyalty come la raccolta punti del supermercato o di tacciarla di essere un costo piuttosto che un valore. La loyalty sarà sempre un costo se il brand non cambia mindset, se costruisce un programma per poche persone alto-spendenti, invece di rivolgersi a tutte le persone, clienti e stakeholder, avviando un progetto di relazione democratico, inclusivo e sostenibile.

 

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